-di Alessandro Gatti-
In riferimento a quanto sostiene il Professor Quirino Galli, nel suo studio “Il carnevale: dalla tradizione arcaica alla tradizione colta del Rinascimento”, c’è da sempre stata una scarsa attenzione degli storici locali in merito all’argomento; vuoi perché il Medioevo non ha lasciato un significativo patrimonio documentato, vuoi per la logica consumistica degli ultimi due secoli che ha portato a trascurare la riscoperta dei valori simbolici e della tradizione legati alla festa del carnevale.
Nelle modalità di espressione del fenomeno carnevalesco nei paesi della Tuscia viterbese, troviamo quell’approccio tipico della visione popolare tendente a confondere l’aspetto religioso con la superstizione.
Nel Carnevale di Caprarola ad esempio, è emblematico un trattore addobbato a festa che traina un carro con un goffo asino assieme ad un gruppo di “carnevalari” lungo la via principale del paese dando le spalle a Palazzo Farnese.
Quest’ultimi, in coerente accostamento alla tradizione greco-romana, delle dionisiache e dei saturnali, declamano satire vestiti in pelli di capra ostentando i vizi e virtù della comunità paesana con spiccati riferimenti politici.
A Grotte S.Stefano si assiste ad una rappresentazione decisamente più drammatica. Il protagonista, dopo atti di violenza, viene condannato a morte per impiccagione e prima di passare all’altro mondo recita il suo testamento. In questo caso il tema della drammaturgia ritualizzata è molto forte.
Il condannato altri non è che Bucefere, la rappresentazione della corruzione popolare di Lucifero, il quale si muove dal fondo della piazza verso i presenti brandendo una frusta circondato da dodici diavoli. Il sangue e le percosse sono reali e impongono in maniera aggressiva il tema della lotta tra bene e male, motivo portante della tradizione carnevalesca.
In quell’occasione Bucefere frustava tutti i paesani presenti e lanciava delle “schifezze maleodoranti”, mentre i popolani malcapitati tentavano di rubargli la frusta. Se ci riuscivano egli poteva riaverla indietro in cambio di vino rosso. Come sottofondo il riecheggiare dei tamburi scandiva le varie fasi della guerra.
Una volta superata la schiera di popolani, al termine della piazza, Bucefereveniva condotto su un palco per essere giustiziato e, una volta letto il testamento ed avvenuta l’esecuzione, la sua anima corrotta era chiamata a lottare con alcuni demoni infernali che tentavano di ghermirla.
Al termine della battaglia Bucefere ne usciva vincitore e fuggiva a cavallo di un caprone verso la campagna.
I temi che emergevano in queste rappresentazioni erano quelli cari alla tradizione bucolica(campagnola). Il cibo e il vino rappresentavano gli aspetti principali, mentre i simboli che comparivano erano strettamente connessi alla ritualità scaramantica che ne era di contorno. A causa della confusione che sussiste tra le varie fonti, si può solo intuire che l’origine di questo approccio risalisse ad un periodo arcaico addirittura precedente al Medioevo di cui, quest’ultimo, ne ha confuso la memoria.
Per fortuna gli elementi del teatro drammaturgico e della tradizione bucolica sono poi stati rielaborati nel periodo rinascimentale e barocco caratterizzandone le modalità di espressione. Le stesse hanno poi trovato spazio nelle fonti oggetto di questa analisi risalenti per lo più al periodo a cavallo tra otto e novecento.
La tradizione carnevalesca della Tuscia, e in particolare del territorio Falisco, insisteva sul tema della fuga del male dalle tenebre per giungere a contaminare il mondo terreno. A fare da antagonista al processo di corruzione maligna stava il percorso di espiazione che doveva compiere l’essere umano per scacciare l’oscurità dal proprio mondo.
La scena descritta nel Carnevale di Grotte S.Stefano, e per certi versi anche quella di Caprarola, rievoca le feste romane dei lupercalia nelle quali, il Dio lupo dei luperici allo stesso modo del dio degli inferi Bucefere, invadeva il mondo terreno con demoni capra per trascinarlo nelle tenebre. I lupercalia erano per l’appunto riti di purificazione che si tenevano a Febbraio e februare, in latino, significava per l’appunto purificare.
Operando le opportune distinzioni, vale al pena specificare che le festività di Carnevale trovavano, nelle modalità della loro celebrazione, un approccio maggiormente legato alla convivialità e al bere nel territorio Falisco( che comprendeva originariamente le zone di Vignanello, Sutri, Nepi, Calcata e Civitacastellana). Il carnevale di Acquapendente era il più garbato e sobrio; signorilmente molto vivace e vicino a quello di P.zza della Signoria a Firenze. Per il suo legame con la tradizione barocca, esso trascendeva, a volte, con elementi spiccati di grottesca comicità popolare. La morte di Carnevale, e quindi il trionfo dell’ordine cosmico sul caos degli inferi, era rappresentata dando fuoco ad un fantoccio le cui fiamme purificatrici diradavano le ombre della sera.
A Ronciglione erano presenti forti legami con il carnevale romano, i cui forti colori e le festose rappresentazioni ricordavano gli ancora oggi gettonati carnevali brasiliani. I principali elementi del carnevale ronciglionese possono essere rinvenuti, ad esempio, nella famosa corsa di cavalli senza fantino, o nell’usanza di trasformare l’intera piazza centrale in palcoscenico, come era tipico della cultura barocca e rinascimentale. I contenuti della festa, dalle maschere, agli addobbi dei carri, dall’inizio della celebrazione del Carnevale, fino alla sua conclusione, divenivano sempre più incentrati sui temi centrali dell’esistenza, tralasciando, a poco a poco, gli elementi eccessivamente effimeri e grotteschi.
Sempre a Ronciglione, un aspetto di rilievo era l’ingresso, il giorno di Martedì Grasso, di Re Carnevale vestito con un elegante completo in frack. A lui venivano consegnate simbolicamente le chiavi della città, mentre la donna che lo accompagnava, che era in realtà un uomo travestito, piangeva la sua vicina morte.
La grottesca goliardia del carnevale ronciglionese si distingueva anche per gli innumerevoli anziani che, vestiti da neonati all’interno di goffe carrozzine, si nutrivano con biberon riempiti di cognac e whisky. In mezzo alla gente in maschera un “monsignore” mascherato dispensava benedizioni ai presenti in cambio vino. Le maschere danzavano lanciando materia fecale in mezzo alle strade fino a che il corteo non si apprestava a scortare Carnevale al suo triste destino. La morte del Carnevale è qui’ rappresentata da una mongolfiera che, sospinta in aria da un enorme fuoco, trasportava, in una danza ascensionale senza ritorno, il Re della festa( un fantoccio vestito da Carnevale).
Durante questo rito i presenti davano il via ad una sciocca danza chiamata “il salterello” e consistente nel cercare di saltare i tizzoni ardenti alla base del fuoco evitando di finirci sopra.
Altra rappresentazione tipica del carnevale ronciglionese, che proponiamo alla vostra attenzione, era quella dei “Nasi rossi” che si inscenava il lunedì successivo alla corsa dei cavalli senza fantino. Un gruppo numeroso di giovani ragazzi, vestiti ciascuno con un bianco pigiama da donna, trasportavano dei vasi da notte pieni di rigatoni al ragù. Il tutto accompagnato da una festosa banda musicale che faceva da sottofondo ad una folle rincorsa dei presenti che venivano costretti a mangiare i rigatoni fumanti.
Aspetti chiave di questo genere di rappresentazioni, erano date da una visone del mondo alla rovescia in cui il sesso, la satira, il cibo e il vino la facevano da padroni. Le danze grottesche fatte di effimeri momenti di goliardia rappresentano il percorso dell’essere umano verso l’inevitabile destino della morte. Questa viene però momentaneamente sconfitta dalla lotta incessante dell’uomo per la vita e le armi a disposizione dei mortali erano rappresentate dai piaceri della vita terrena. Questi sono capaci di respingere negli inferi i demoni maligni intenzionati a ghermire quante più anime possono nella folle invasione perenne del mondo terreno. Tra uno scherzo e l’altro, una bevuta e l’altra, veniva lasciato spazio al pungente cinismo popolare della riflessione e trapelavano quegli aspetti tanto cari alla cultura agro-pastorale che, nella sua ingenua semplicità, non perdeva occasione per proporre un simbolismo ed una tradizione secolare ricche di significato.
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