Alphonse ha una moglie e tre figli che lo aspettano a casa; il più piccolo non fa che chiedergli: “Quando torni?”. Renato doveva andare a vivere con la fidanzata. Jean stava cercando di far venire sua moglie in Italia dal Burkina Faso. Hanno lasciato tutto per prendersi cura dei loro ragazzi disabili.
A tempo pieno.
Sono educatori dell’associazione Juppiter: Alphonse, Renato e Jean, ma anche Simona, Marika, Jessika e Claudine, che li aiuta a preparare da mangiare. “‘I magnifici 7’ – li chiama il presidente dell’associazione, Salvatore Regoli -, perché certo un po’ magnifici bisogna esserlo, per mollare le proprie famiglie a tempo indeterminato e trasferirsi con 18 ‘ragazzi speciali’, disabili e autistici”.
Dal 5 marzo al 4 maggio hanno vissuto una specie di “Grande Fratello” senza telecamere: la casa grande c’era; il giardino pure (un castagneto di seimila metri quadri, a San Martino al Cimino); nessuna visita, al massimo le telefonate dai familiari. Sette educatori e 18 ragazzi insieme h24 per due mesi, senza uscire neanche per la spesa: gliela portavano altri colleghi educatori di Juppiter, insieme a vestiti di ricambio e a tutto il necessario, lasciato fuori dal cancello.
Un filo costante, mantenuto col resto dell’associazione, tra telefonate e videoconferenze. Perché a nessuno, per 60 giorni, è stato permesso di entrare o uscire da questo guscio protettivo, a prova di Coronavirus.
Da ieri è iniziata una graduale Fase 2: “i magnifici 7” hanno potuto riabbracciare le famiglie e ripreso i normali turni, alternandosi con gli altri colleghi di Juppiter, mentre i 18 ragazzi speciali resteranno ancora nella casa, per prudenza.
La maggior parte di loro abitava nelle case famiglia di Juppiter, a Capranica e Bagnoregio; un gruppetto conviveva, sempre a Capranica, nel progetto “dopo di noi”, per imparare a essere adulti e autonomi. Sarebbe stato complicato isolarsi e rispettare le distanze in quei piccoli appartamenti in centro storico, tra l’andirivieni, a turno, degli educatori: una routine che ha funzionato per anni resa di colpo rischiosa dal Covid.
Da qui l’avventura di San Martino, condivisa e voluta dalla direzione della Asl di Viterbo fin dalla prima ora e seguita passo passo dal Direttore del Servizio Disabile Adulto e di Neuropsichiatria Infantile Marco Marcelli e dal neuropsichiatra Antonio Panichelli.
Un progetto a metà strada tra necessità e scommessa, racconta Alphonse, il decano dei “magnifici 7”: arrivato dal Togo 15 anni fa, ha trovato asilo in Italia e un lavoro in Juppiter. “L’epidemia ci ha costretti a scegliere – dice -: o facevamo tornare i ragazzi a casa dai parenti, interrompendo i loro percorsi di crescita personale, o li aiutavamo a proseguire. È quello che abbiamo fatto”. Nella casa di San Martino, un immobile di proprietà della Provincia, c’è spazio a volontà: tante camere, un salone per le attività, la cucina industriale, la sala mensa e una cintura di verde. Le giornate scivolano tra ginnastica, passeggiate, pulizie, canzoni. Via i cellulari il più possibile: la parola d’ordine è “insieme”.
La nostalgia di casa ha pesato, ma nessuno parla di “sacrificio”. “Per me è stata un’occasione – spiega Renato, 25 anni, operatore socio sanitario, oltre che educatore -.
Stare più con i ragazzi per conoscerli meglio era quello che volevo: un turno di qualche ora non te lo permette”. Non è stato facile costruire la “nuova normalità”. “Spiegare loro il perché delle restrizioni è stata dura – dice Simona, trent’anni, una laurea in Scienze dell’educazione -. Ma ogni difficoltà l’abbiamo affrontata insieme. E così l’abbiamo superata”.
Jean, 37 anni, lavorava come educatore anche in Burkina Faso: nove anni fa l’incontro con un’associazione italiana e il viaggio che l’ha portato qui.
“È stato uno scambio – osserva -. Siamo cresciuti noi, sperimentando quello che studiamo nei nostri corsi di adattamento, e sono cresciuti i ragazzi. Ora hanno molta più fiducia l’uno nell’altro”. Qualcuno anche in se stesso, educatori compresi. Come Jessika, 25 anni, una passione per gli altri e una gran paura di non farcela, all’inizio di quest’esperienza, ma si è dovuta ricredere: “Ci siamo aiutati e sorretti a vicenda. Uscirò molto più sicura di quando sono entrata qui”. Con Marika, laureanda, sono più o meno coetanee: “Non ero mai stata così tanto tempo lontana da casa – dice lei -. Qualche dubbio c’era, ma l’esigenza di proteggere i ragazzi è stata più forte”. Sono loro i veri “magnifici”, per il team di educatori: “Ti regalano il sorriso e l’energia – dice Alphonse -. Con loro non puoi mai fermarti: ogni giorno è una sfida”.
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