Che cosa successe davvero nella camera di consiglio di quell’infuocato primo agosto in Cassazione, che decise la condanna di Silvio Berlusconi per il caso Mediaset?
Ci fu un’insanabile spaccatura tra i cinque giudici nelle 7 ore di discussione, con il relatore Amedeo Franco che si dissociò duramente dagli altri, come raccontano versioni sempre più numerose e accreditate? Oppure si raggiunse l’unanimità, come vollero dire all’esterno le firme sul verdetto di tutto il collegio, con un gesto senza precedenti?
Attorno alla sentenza della sezione feriale della Cassazione da allora regna il silenzio quasi totale dei giuristi. Niente note di commento, sulle tante riviste di diritto che abitualmente si scatenano su qualsiasi pronuncia di rilievo della Suprema Corte, tranne due analisi fortemente critiche sulle motivazioni giuridiche della condanna a 4 anni. Un silenzio che nell’ambiente si spiega con un forte imbarazzo. E infatti, quegli unici due commenti pubblicati su Guida al diritto, rivista giuridica del Sole24Ore, sono delle bocciature. «La sentenza non sta in piedi», sostengono Enrico Marzaduri, ordinario di Diritto pubblico all’università di Pisa e Antonio Iorio, docente di Economia dei tributi all’ateneo di Viterbo.
Marzaduri sostiene che la disamina dei giudici “pare più espressione di un nuovo vaglio di merito che una verifica di fondatezza di censure mosse alla decisione della Corte territoriale” in quanto non sono mai state trovate le prove del passaggio di denaro tra Berlusconi, i manager di Mediaset e Frank Agrama. In altre parole Silvio Berlusconi è stato condannato per una presunzione di responsabilità.
L’altro esperto Iorio sostiene invece che, in merito alla vendita dei diritti ad un prezzo maggiore rispetto a quelli di mercato, “il costo è stato effettivamente sostenuto, il bene o il servizio realmente acquistato, per cui di norma l’amministrazione fiscale non ha alcun problema a riconoscere la deducibilità del costo”, pertanto non esiste alcuna frode fiscale e nessun fondo nero in cui sarebbero andati a finire i soldi.
FONTE: IL GIORNALE
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